Lavoratore, se ti fanno lavorare troppo e l’azienda ti stressa, non puoi denunciarla per mobbing: nuova sentenza storica

19 Luglio 2025

Pubblicato il: 19/07/2025

Con la sentenza n. 14890 del 28 maggio 2025, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito un principio fondamentale: non si configura mobbing quando l’azienda impone un carico di lavoro elevato, purché questo rientri nelle ordinarie esigenze organizzative e produttive dell’impresa. In altre parole, anche se il ritmo è sostenuto e può generare stress, non si tratta automaticamente di un comportamento persecutorio.
Il caso esaminato dalla Corte riguardava un dipendente che aveva denunciato l’azienda per mobbing e, in subordine, per straining, una forma più attenuata di pressione psicologica sul lavoro. Tuttavia, la Suprema Corte ha respinto il ricorso: non c’erano atti intenzionali e reiterati di vessazione, né una strategia organizzata per isolare o danneggiare il lavoratore.
Secondo i giudici, il datore di lavoro aveva esercitato il proprio potere direttivo, organizzativo e di controllo, così come previsto dall’art. 2086 del c.c., che attribuisce all’imprenditore la direzione dell’impresa, e dall’art. 2104 del c.c., che impone al lavoratore il dovere di diligenza e obbedienza. Insomma, più lavoro non significa automaticamente mobbing.

Il caso concreto: obiettivi ambiziosi non equivalgono a vessazioni
Nel dettaglio, il dipendente contestava all’azienda di averlo sottoposto a un ritmo insostenibile, con obiettivi di vendita sempre più alti e un’organizzazione rigida. Tuttavia, la Corte ha sottolineato che tali richieste erano note fin dall’inizio del rapporto di lavoro e che il lavoratore le aveva accettate firmando il contratto.
Secondo la ricostruzione dei giudici, l’aumento del carico di lavoro era dovuto a esigenze aziendali legittime, come picchi stagionali o incremento della clientela, e non a un’intenzione punitiva o discriminatoria. Perché si parli di mobbing – sempre secondo la Cassazione – devono esserci comportamenti sistematici, intenzionali e discriminatori, finalizzati a emarginare il lavoratore o a minarne la dignità. Il carico di lavoro intenso, se giustificato e generalizzato a tutti i dipendenti, non rientra in questa casistica.
La Corte, quindi, ha ribadito che lo stress lavorativo non è sufficiente, se non è accompagnato da prove concrete di un disegno persecutorio o vessatorio.
L’onere della prova è tutto sulle spalle del lavoratore
Un altro nodo cruciale affrontato dalla sentenza è quello della prova del danno. La Cassazione ha ricordato che spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza di tre elementi essenziali:
  • un danno effettivo, fisico o psicologico, documentato (ad esempio con certificati medici, relazioni specialistiche, consulenze tecniche);
  • un ambiente lavorativo nocivo, ostile o degradato, da cui possa derivare tale danno;
  • un nesso causale diretto tra le condizioni lavorative e il danno stesso.
Solo se il lavoratore riesce a fornire prove concrete e dettagliate, l’onere si sposta sull’azienda, che dovrà dimostrare di aver fatto tutto il possibile per prevenire i rischi e tutelare la salute del personale, come stabilito dall’art. 2087 del c.c..
Nel caso in questione, il dipendente si era limitato a descrivere genericamente uno stato di affaticamento e stress, senza fornire documentazione specifica o indicare episodi discriminatori. Di conseguenza, anche la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, confermando la correttezza dell’operato aziendale.
Cosa cambia davvero con questa sentenza: un principio che fa scuola
Con la sentenza n. 14890/2025, la Corte ha dato un segnale chiaro: il concetto di mobbing non può essere svuotato di significato e applicato indiscriminatamente a ogni situazione di disagio lavorativo. Non basta dire “sto male per il troppo lavoro”: serve una prova chiara, puntuale e oggettiva di una condotta vessatoria ripetuta nel tempo, non una semplice gestione aziendale energica.
La decisione si inserisce in un orientamento consolidato, già espresso in precedenti sentenze come la n. 28274/2018, in cui si escludeva il mobbing in assenza di atti discriminatori, o la n. 18927/2014, che aveva ribadito la legittimità di carichi di lavoro elevati se giustificati da motivi organizzativi.
In sostanza, chi accetta un impiego impegnativo non può poi lamentarsi della sua intensità, a meno che non dimostri di essere stato preso di mira in modo mirato e sistematico.
Imprese più tutelate, ma resta l’obbligo di prevenire: attenzione agli eccessi
La sentenza rappresenta una boccata d’ossigeno per molte imprese, soprattutto in settori dove i ritmi sono naturalmente elevati, come call center, commercio, sanità o consulenza. Tuttavia, questo non autorizza abusi o richieste disumane.
L’art. 2087 c.c. impone comunque al datore di lavoro il dovere di garantire condizioni sicure e non dannose per la salute psicofisica dei dipendenti. Quindi, se i carichi diventano eccessivi, se le ore di straordinario sono sistematiche e non retribuite, o se si adottano pratiche vessatorie verso singoli lavoratori, la tutela contro il mobbing resta assolutamente valida.
La Cassazione, semplicemente, ha tracciato una linea più netta tra “lavoro faticoso” e “persecuzione”, offrendo ai giudici di merito – e anche ai lavoratori – un metro di valutazione più chiaro.
In conclusione, il messaggio è questo: il lavoro può essere duro, ma non per questo è ingiusto. Solo l’ingiustizia sistematica è mobbing.

Vai alla Fonte
Argomenti: