Sesso con donna ubriaca, se lei ha bevuto troppo è violenza sessuale, anche senza usare forza o minacce: nuova sentenza

1 Ottobre 2025

Pubblicato il: 01/10/2025

Nelle notti movimentate dei locali, tra musica e bicchieri, può accadere che qualcuno perda il controllo della propria lucidità. Ma cosa succede quando un'altra persona decide di approfittare di quella condizione? La Corte di Cassazione ha fornito una risposta chiara con la sentenza n. 31847 del 24 settembre 2025, stabilendo un principio che non lascia spazio a interpretazioni: chi ha un rapporto sessuale con una persona troppo ubriaca per esprimere una volontà consapevole commette violenza sessuale. Non servono minacce, non è necessaria la forza fisica. È sufficiente sfruttare quello stato di vulnerabilità per configurare il reato.
Secondo la Suprema Corte, l'autodeterminazione sessuale rappresenta un diritto fondamentale che deve essere protetto sempre, senza eccezioni. Quando una persona si trova in condizioni tali da non poter formare una volontà libera e cosciente, qualsiasi atto sessuale compiuto in quella situazione costituisce una violazione grave.
Il messaggio è inequivocabile e si rivolge a tutta la società: la vulnerabilità di una persona non è un'opportunità da cogliere, ma una condizione che richiede rispetto e protezione. Chi ignora questo principio e decide, invece, di approfittarne risponderà penalmente delle proprie azioni.
I fatti di causa
I fatti alla base di questa importante decisione giudiziaria si sono svolti durante una serata iniziata come tante altre. Un giovane incontra una ragazza all'interno di una discoteca e nota immediatamente che lei si trova in uno stato di evidente alterazione, causato dal consumo di alcol. Invece di preoccuparsi per la sua salute o di chiamare qualcuno che potesse assisterla, l'uomo compie una scelta completamente diversa: la trascina a braccia fino a una camera d'albergo, dove consuma con lei un rapporto sessuale.
Durante il processo, la difesa dell'imputato ha cercato di minimizzare l'accaduto, sostenendo che non ci fosse stata violenza esplicita e che, quindi, non si potesse parlare di reato. Tuttavia, i giudici hanno valutato i fatti in modo radicalmente diverso. Dopo aver attraversato i primi gradi di giudizio, la vicenda è arrivata fino alla Cassazione, che ha respinto definitivamente il ricorso del giovane confermando la sua condanna. Gli Ermellini hanno evidenziato come l'atto stesso di trascinare a braccia la ragazza costituisse la prova schiacciante non solo della sua totale incapacità di intendere e volere in quel momento, ma anche della piena consapevolezza dell'uomo riguardo a quella condizione. In altre parole, lui sapeva perfettamente che lei non era in grado di decidere, eppure ha scelto deliberatamente di approfittare di quella situazione di debolezza per i propri scopi.
Il cardine giuridico: quando lo stato di inferiorità diventa centrale
Il fulcro della sentenza risiede nell'interpretazione che la Cassazione ha fornito dell’art. 609 bis, comma secondo, numero 1 del codice penale. Questa norma punisce chiunque induca una persona a compiere o subire atti sessuali, abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica in cui la vittima si trova. La Corte ha costruito su questo articolo un principio importante: il reato si configura anche quando si approfitta di una situazione di vulnerabilità preesistente, ossia di una condizione che non è stata necessariamente creata dall'aggressore, ma che semplicemente esiste e viene strumentalizzata.
Tale aspetto rappresenta una svolta nella tutela delle vittime. Secondo i giudici, non ha alcuna rilevanza stabilire come la persona sia finita in quello stato di inferiorità. Che abbia bevuto autonomamente, che sia stata indotta da altri a farlo, che la sua vulnerabilità derivi dall'assunzione di farmaci, da uno shock psicologico o da una fragilità emotiva preesistente, la protezione legale scatta comunque con la stessa forza. Ciò su cui il giudice deve concentrarsi – spiega con chiarezza la Suprema Corte – è l'esistenza oggettiva di quella condizione di debolezza e la condotta di chi, invece di rispettarla e astenersi, decide consapevolmente di sfruttarla per soddisfare i propri desideri sessuali. In sintesi: chi vede una persona in difficoltà e sceglie di trarne vantaggio sessuale commette un reato grave, indipendentemente da ogni altra considerazione.
Due facce della violenza: costrizione e induzione, entrambe punibili
Per comprendere appieno la portata rivoluzionaria di questa decisione, occorre addentrarsi nella distinzione che la Corte di Cassazione traccia tra le differenti modalità attraverso cui si può consumare una violenza sessuale. L'articolo 609-bis del codice penale identifica infatti due forme principali di questo reato, entrambe ugualmente gravi ma realizzate con modalità diverse.
La prima tipologia è quella che viene definita violenza sessuale "costrittiva", probabilmente la più conosciuta nell'immaginario collettivo. In questa fattispecie l'aggressore utilizza violenza fisica diretta, minacce concrete o un abuso di autorità per costringere la vittima a subire atti sessuali. In questi casi la volontà della persona offesa viene completamente annullata, la sua capacità di reagire viene spezzata attraverso la forza o l'intimidazione, e la sua libertà di autodeterminazione viene schiacciata al punto da renderle impossibile qualsiasi forma di scelta autonoma. È la violenza nel senso più brutale del termine.
La seconda forma, invece, è più subdola ma la legge la considera altrettanto grave: si tratta della violenza sessuale "induttiva". Qui l'aggressore non ricorre alla forza fisica né brandisce minacce esplicite, ma opera attraverso la manipolazione psicologica. Induce la vittima, ovvero la persuade o la spinge, a compiere o subire atti sessuali che, in condizioni normali di lucidità, quella persona non avrebbe mai accettato. Come ci riesce? Strumentalizzando proprio la sua vulnerabilità, approfittando di una momentanea incapacità di giudizio, riducendo essenzialmente la vittima a un semplice strumento per il soddisfacimento del proprio piacere sessuale. In questi casi la volontà della persona non viene distrutta con la violenza, ma viene aggirata, deviata, sfruttando una falla nella sua capacità di autodeterminarsi in modo pienamente consapevole. Ed è precisamente questa seconda modalità, basata sull'approfittamento della debolezza altrui, che la sentenza della Cassazione ha voluto colpire con fermezza assoluta.
La sentenza, in sostanza, ribadisce con forza un concetto fondamentale: un "sì" pronunciato da una persona che non si trova in pieno possesso delle proprie facoltà mentali non ha alcun valore. Quel consenso apparente, estorto o ottenuto approfittando di uno stato di incapacità, equivale in realtà a un "no" e determina automaticamente la configurazione del reato di violenza sessuale.


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